Lieviti indigeni e lieviti selezionati secondo Donatella Cinelli Colombini, Casimiro Maule e Luca Rettondini
“Che strada devo prendere?” chiese.
La risposta fu una domanda: “Dove vuoi andare?”
Tratto da “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll
Nel corso dei secoli il vino è si arricchito di valori e significati sempre più ampi e complessi: nato come alimento e fonte di convivialità e, in seguito, rapidamente divenuto simbolo ed espressione del divino, ha nel tempo visto accrescere i propri significati fino a divenire, talvolta, espressione della ricchezza più sfrenata così come simbolo del più profondo degrado personale e sociale.
A questi simboli così “estremi”, in anni più recenti molti altri se ne sono aggiunti vedendolo così divenire – a seconda dei casi e delle proprie convinzioni – simbolo di un modello di sviluppo sostenibile e rispettoso dell’ambiente oppure aggressivo rappresentante di un’agricoltura intensiva, incurante dei danni alla salute e al territorio.
È evidente – o almeno spero che lo sia – che, come spesso accade, il problema non sta nel vino bensì nelle persone ed è chiaro che, ad esempio, vino non è sinonimo di alcolismo ma vi sono persone che sperano di trovare nella bottiglia la finta soluzione ai loro gravi, e preesistenti, problemi.
Analogamente, la sostenibilità sociale e ambientale della vitivinicoltura non è insita nel solo fatto di coltivare la vite e vinificarne i frutti ma nel modo in cui questa attività viene svolta.
Tali problematiche, che indubbiamente rappresentano aspetti di pressante riflessione, portano spesso gli eno-appassionati a contrapposizioni preconcette che conducono a posizioni talvolta non più collegate alla realtà dei fatti
Uno degli argomenti su cui più spesso verte il dibattito tra i sostenitori di una vinificazione quanto più “tradizionale” possibile e chi, al contrario, vede in molte tradizioni di cantina una fucina di difetti enologici riguarda l’utilizzo dei lieviti selezionati per lo svolgimento della fermentazione alcolica. Mi sembra evidente che si tratti di un argomento estremamente tecnico che deve rispondere, da un lato, alla necessità – secondo me irrinunciabile – di avere vini totalmente esenti da difetti, dall’altro al desiderio molto più che legittimo e condivisibile di trovare nel bicchiere le infinite sfumature – ed emozioni – dovute al vitigno e al territorio che hanno reso, nel corso dei secoli, il vino un prodotto della cultura umana degno di essere raccontato, compreso e profondamente amato.
La complessità dell’argomento è tale che, come è giusto che sia, non mi voglio minimamente sbilanciare nella difesa di questo o quell’approccio ma che sentissi il bisogno di affrontare l’argomento su queste pagine rivolgendomi a chi – ciascuno secondo la propria cultura, formazione, e sensibilità ma sempre conseguendo grandissimi risultati – svolge quotidianamente l’attività di vitivinicoltore e/o enologo.
Ho quindi scritto quattro domande riguardo vari aspetti dell’utilizzo dei lieviti indigeni o di quelli selezionati che ho sottoposto a tre importanti esponenti tecnici dell’Italia enoica: Donatella Cinelli Colombini – titolare di Casato Prime Donne, fondatrice Movimento del Turismo del Vino, Presidente del Consorzio del vino Orcia e Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana – Casimiro Maule – per 47 anni enologo della storica azienda Nino Negri in Valtellina e vincitore del titolo di “Enologo dell’Anno 2007” del Gambero Rosso – e Luca Rettondini, enologo presso la prestigiosa azienda Le Macchiole di Bolgheri dopo una serie di importanti esperienze lavorative in Italia e all’estero.
Le loro risposte, a mio avviso, rappresentano una bella sintesi dello stato dell’arte a tal proposito nonché uno spaccato fondamentale su un mondo, quello dell’enologia, che richiede sempre più di coniugare competenza e sensibilità nonché tecnica ed artigianalità con l’unico vero e nobile obiettivo di produrre vini di alta qualità e, cosa fondamentale, capaci di raggiungere l’anima oltre che i soli sensi. La strada per ottenere tutto ciò è personale e, a mio parere, credo sia giusto così.
A vostro avviso, i lieviti indigeni, rispetto a quelli selezionati, possono creare maggiori problemi nel corso della fermentazione alcolica? Se sì, quali sono i principali fra questi problemi e quali gli eventuali accorgimenti atti a prevenirli?
Donatella Cinelli Colombini
Fare vinificazioni spontanee, come quelle del passato, è sicuramente pericoloso e paradossalmente è pericoloso soprattutto nelle annate in cui le uve sono in perfetto stato sanitario perché l’azione di disseminazione dei lieviti, nella vigna, da parte degli insetti avviene maggiormente se gli acini sono danneggiati.
Ovviamente i lieviti indigeni danno più carattere al vino ma sono anche molto più pericolosi perché i lieviti apiculati e quelli ossidativi hanno “istinti” completamente diversi da quelli del produttore che cerca di fare vini dall’aroma netto e elegante. Secondo me chi vuole fare una fermentazione “al naturale” dovrebbe iniziare facendo un “pied de cuve” e usare il mosto ricco di lieviti fermentativi per aiutare la regolarità della fermentazione.
Casimiro Maule
Dopo anni di esperienza nella vinificazione di uve nebbiolo (chiavennasca) di montagna, posso affermare che sicuramente i lieviti indigeni creano maggior problemi e difficoltà:
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stentata o lenta partenza della fermentazione (che in annate ottime può anche avvenire e non dare problemi di nessun genere, ma in annate con problemi sanitari sull’uva può essere dannosa)
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deviazioni organolettiche e chimiche
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aumenti dell’acidità volatile
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rischio di arresto di fermentazione con alti residui zuccherini (otto/dieci grammi litro)
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tutto questo porta ad annullare o ridurre notevolmente le caratteristiche tipiche del territorio/vitigno.

Per prevenire questi inconvenienti esistono due strade:
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scelta di lieviti selezionati disponibili sul mercato ottenuti da uve nebbiolo e riprodotti in modo artigianale
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uso dei lieviti autoctoni o aziendali.
Occorre però operare nel seguente modo: prima dell’inizio della vendemmia vera e propria raccogliere una parte di uva perfettamente sana, pulita e far iniziare la fermentazione creando una “pied de cuve” che sarà poi usata (minimo 2 – 3%) sulle uve pigiate che entrano in cantina. Importante è l’inoculo immediato per evitare deviazioni ma anche impedire ai lieviti e batteri indesiderati di produrre odori o aromi cattivi che sentiremmo nel vino.
Luca Rettondini
L’utilizzo di lieviti autoctoni è una tecnica enologica sicuramente molto affascinante ma ancora poco approfondita e sposata da molti enologi e produttori come un giustificativo alla bontà e naturalezza dei vini da loro prodotti.
L’utilizzo di lieviti indigeni è una tecnica valida ma prevede accortezza nelle varie fasi di lavorazione dei mosti.
I principali problemi riscontrati sono in primo luogo dovuti alla presenza nei mosti, di famiglie di lieviti con diverse forme, caratteristiche e dinamiche fermentative, resistenza all’alcol etilico e CO2 ( da loro prodotte) e produzione di altre sostanze .
Nel mosto non inoculato si crea una sorta di “staffetta” iniziale tra lieviti non-saccaromiceti e saccaromiceti.

I non-saccaromiceti ,tra i quali la famiglia degli apiculati è la più importante, sono fermenti dotati di un’elevata e rapida crescita e producono quantità piuttosto elevate di acido acetico (acidità volatile) ma sono poco tolleranti all’alcol etilico e quindi intorno ai 4/5 gradi alcol la loro attività si arresta.
Insieme ai lieviti apiculati convivono all’inizio dell’ammostamento lieviti che svolgono un’azione “ossidativa” con produzione di sentori medicinali che arrestano la loro crescita in assenza di ossigeno e quindi con la presenza di CO2 nel mosto.
La crescita dei lieviti saccaromiceti a questo punto prende il sopravvento.
La fase fermentativa a questo punto potrebbe, a seconda del lievito che prende il sopravvento, riscontrare problemi di produzione di idrogeno solforato (riduzione) e/o una possibile cinetica fermentativa irregolare con avvii stentati e/o chiusure stentate ed arresti fermentativi che permettono poi ad altri microrganismi di svilupparsi e deteriorare il vino dal punto di vista organolettico.
Gli accorgimenti da adottare in cantina sono tutti legati a favorire il corretto svolgimento della fermentazione .
Ambienti di vinificazione igienicamente impeccabili, utilizzo di solforosa per favorire la selezione dei saccaromiceti (più tolleranti alla S02), controllo delle temperature di fermentazione, nutrizione dei lieviti, controllo della CO2 ed ossigenazione dei mosti.
L’utilizzo dei lieviti indigeni quindi può essere un’ottima tecnica in annate che regalano uve sane e con buoni parametri maturativi, dove la flora indigena della propria cantina possa lavorare rispettando la competizione tra i vari concorrenti e consentendo di chiudere la fermentazione senza problemi.
Molto si è detto e scritto sulla maggior tipicità dei vini prodotti a seguito di fermentazioni con i lieviti indigeni rispetto a quelli ottenuti da lieviti selezionati, accusati – a torto o a ragione – di dar vita a prodotti maggiormente omologati. Qual è, sulla base della vostra esperienza diretta, la vostra opinione a tal proposito?
Donatella Cinelli Colombini
È vero: i lieviti industriali omologano il vino e tolgono una parte dell’impronta del suo territorio. Un buon compromesso sono i lieviti indigeni selezionati come quelli che hanno i territori dell’Amarone e del Brunello. Sono stati elaborati partendo da vinificazioni spontanee nelle aziende Dal Forno e Casato Prime Donne da Oenofrance (un tempo Enobiotech). Da noi la ricerca è iniziata nel 2008 con due vinificazioni nella vigna e poi con una selezione in laboratorio che è partita da 400 lieviti per poi restringersi 8 e infine scegliere il migliore che noi chiamavamo Ardita 6 (dal nome della vigna originaria) ed è stato commercializzato con il nome di Tusco. Oggi tutte le cantine di Montalcino possono vinificare il loro Brunello con un lievito 100% indigeno.

Casimiro Maule
Io sono favorevole alla ricerca e quindi difendo i lieviti selezionati in quanto aiutano nel complesso processo della vinificazione in particolare in annate difficili e complicate e nella vinificazione di notevoli quantitativi di uve.
Luca Rettondini
Trovo effettivamente una grande confusione e conflittualità su questo argomento.
La mia esperienza mi ha portato ad avere un’idea ben precisa che mi consente di poter lavorare in varie realtà enologiche con o senza l’utilizzo di lieviti commerciali.
Innanzitutto penso che un Enologo debba dal punto di vista professionale ottenere il massimo risultato con i mezzi che ha a disposizione che cambiano per territorio, azienda e varietà .
Sicuramente una gestione agronomica rispettosa delle viti e dell’uomo consente di avere uve con un presenza di residui chimici molto bassi facilita le fermentazioni in generale ed a maggior ragione le spontanee.
Ritengo l’utilizzo di lieviti esogeni una valida opportunità soprattutto in annate difficili quando dalla vigna possono arrivare uve con stati sanitari non ottimi.
Non posso parlare di omologazione di prodotti, poiché ci sono così tante variabili che contribuiscono alla differenziazione di un vino che è riduttivo dare la “colpa” ad un “pacchetto” di lievito.
Molte aziende hanno intrapreso, con l’aiuto di importanti centri di ricerca, un percorso di selezione di propri ceppi di lieviti “aziendali”: ritenete questo un accettabile compromesso fra le due strade finora percorse, ovvero lieviti indigeni oppure lieviti selezionati?
Donatella Cinelli Colombini
I lieviti sono un patrimonio comune di una denominazione e di un territorio non esistono “ceppi aziendali” perché questi microorganismi vivono nell’apparato digerente di calabroni e vespe sociali, animali che volano liberi e non sono “proprietà” di nessuna azienda. Per questo ho scelto di condividere il risultato della selezione dei lieviti indigeni di Montalcino fatta da (Enobiotech) Oenofrance con tutti i colleghi produttori di Brunello e sono orgogliosa che questo contributo alla salvaguardia dei caratteri identitari dei vini di Montalcino venga dalla mia piccola azienda.
Casimiro Maule
L’uso dei lieviti indigeni deve comunque dare un vino buono o meglio ottimo, senza difetti. Non si può immettere sul mercato un vino difettoso definendolo tipico. originale o naturale.
Luca Rettondini
Ritengo che il futuro sia proprio investire sulla ricerca e lo studio in laboratorio.
Oggi è determinante, per avere una conoscenza dei propri vigneti, uve e vini, investire e capire quali siano le loro caratteristiche uniche.
In tutte le cantine esistono ceppi indigeni, capire quale è il più rappresentativo e studiarne le caratteristiche ritengo sia un’opportunità meravigliosa.

Ogni produttore deve tenere conto del gusto dei consumatori e delle sue variazioni nel tempo e nelle diverse nazioni: oggigiorno, l’uso di lieviti selezionati, a vostro avviso, viene percepito dai consumatori – e dagli addetti ai lavori – come maggior garanzia di qualità e franchezza oppure come minor tipicità e perdita di identità e, pertanto, penalizzato?
Donatella Cinelli Colombini
La diversità è un valore molto apprezzato da parte dei wine lovers più evoluti e l’uso di lieviti indigeni va in questa direzione. Ma non bisogna scambiare la tipicità con i difetti. I grandi cantinieri del passato e i grandi wine maker di oggi sono quelli che creano vini eleganti, armonici, identitari e di grande personalità. Avviene lo stesso con la musica, la pittura, la poesia …. Non esiste un capolavoro pittorico con incertezze compositive così come non esiste un grande vino con la volatile sopra i limiti perché i lieviti apiculati non sono stati velocemente neutralizzati dalla trasformazione dello zucchero dell’uva in alcool.
Casimiro Maule
Anche nel biologico sono oggi sul mercato lieviti selezionati, quindi non vedo l’accanimento o la denigrazione dei lieviti secchi che, se scelti con oculatezza, non vanno sicuramente a influire sulle caratteristiche originali del vitigno.
Luca Rettondini
I consumatori di oggi sono più curiosi ed informati e ciò per noi addetti e produttori e solo un enorme vantaggio.
Parlando con molti di loro ritengo che non ci sia ancora una idea ben precisa come non posso nascondere che non ci sia tra noi tecnici.
Penso che la garanzia di qualità di un vino non sia l’utilizzo di un lievito indigeno o no: la freschezza o la tipicità di un vino è l’insieme di un territorio, di uno stile e di tanta fatica fatta in vigna e in cantina.
Ringraziamenti
Voglio, e non poteva essere altrimenti, concludere queste pagine con il mio più sentito ringraziamento a Donatella Cinelli Colombini, Casimiro Maule e Luca Rettondini per avere regalato a tutti noi parte del loro tempo e della loro competenza.